di Diego Vanni
La
cronaca nera, che ogni giorno reca nuove notizie orribili, il 4 luglio scorso
ci rende conto di un diciottenne di Ischia che si è ucciso lanciandosi dalla
Chiesa di Santa Maria del Soccorso – qualche giornale ha ironizzato, in maniera
quanto mai inopportuna, sul nome della Chiesa parlando di nome «che sa quasi di
beffa» – a Forio e finendo schiantato sugli scogli, dopo un volo di 50 metri.
Il perché del suo gesto, il ragazzo lo ha lasciato racchiuso in un biglietto,
carico di disperato senso di colpa: «Mamma ho perso tutto al gioco». Il
ragazzo, che avrebbe compiuto 19 anni questo mese, aveva
perso, appunto, tutti i soldi che aveva su un conto postale giocando a poker
on-line e su un sito di scommesse su Internet.
Io
trovo che questo episodio sia emblematico di una società che ha letteralmente
perso la speranza; la fede in quel Dio la cui carità può passar sopra ogni
errore e dare occasione di ripartire da capo. Una sorta di – potremmo dire –
seconda redenzione. Dio è più grande di una, pur grave, bravata consistente
nell’aver perso tutti i risparmi al gioco. Dio può e vuole mettere una pietra
sopra – laddove c’è consapevolezza dell’errore commesso (e in questo caso
c’era, evidentemente) – consente di
ripartire da capo, lasciandosi alle spalle i propri errori; dà un’altra
opportunità; una seconda chance, basta chiederla. O… quantomeno; basta dar modo
alla vita di proseguire, di andare avanti.
Spesso,
però, purtroppo, non è così! Spesso la gente è – letteralmente – disperata;
manca cioè della virtù della speranza; della speranza in quel Dio che, se lo
vogliamo e glielo consentiamo, tutto può fare per cambiare la nostra vita, come
si suol dire, da così a così. Si
manca di speranza, dunque, ma si manca anche di fede, evidentemente. Di fede
nell’onnipotenza di Dio di fronte alla quale anche il più abnorme dei peccati
nulla può. E di carità; nei confronti di Dio, di sé stessi, degli altri. Si
manca di carità nei confronti di Dio perché si respinge al mittente il dono dei
doni (la vita). Si manca di carità nei confronti di sé stessi perché ci si
priva da soli di quella che prima ho chiamato la seconda redenzione, della possibilità di ripartire da capo. E si
manca di carità anche nei confronti degli altri, non realizzando o non riuscendo
a realizzare a pieno la devastante, sconfinata, satanica tristezza che si
procura loro – quantomeno… ai nostri cari – tramite il nostro gesto. Una disperazione, beninteso, non nuova. Quella
stessa disperazione che colse anche l’apostolo Giuda quando realizzò che Gesù
non era il leader politico venuto a liberare la Palestina dall’occupante
romano. Quella disperazione che portò, appunto, anche lui al suicidio, la
gravità teologica del quale sta proprio nell’asserzione, di fatto, della
(presunta) impotenza di Dio di fronte al peccato commesso; nell’asserzione
della (presunta) impotenza di Dio di ridare un senso ed una speranza alla
nostra vita.
La
fede, la speranza, la carità, dicevo prima. Il senso della vita; l’amore; il
perdono di Dio. Chi ne parla più (quantomeno… per le strade)! Dove sono i
preti?! La domanda è d’obbligo. Se fossero per le strade a portare a tutti
questi disperati l’amore di Dio, a spiegar loro che non c’è peccato che sia più
grande o potente di Dio, a dir loro che Dio dà sempre un’ulteriore possibilità
di ricominciare da capo, questi episodi non accadrebbero. Ma, spesso, sono
troppo in altre faccende (stupide) affaccendati, come si suol dire. Dicono
sempre – i preti - «parliamo in positivo; basta condanne». Bene, andate! E fatelo.
Uscite dalla canonica e date un senso alla vita della gente.
Da La voce cattolica (Mensile del Circolo Ragionar cattolico) edizione n° 31 di settembre 2013 - riproduzione riservata (richiedere autorizzazione a segretario@ragionarcattolico.it)