lunedì 1 aprile 2013

LA MATERIALITÁ DEL CATTOLICESIMO

di Diego Vanni

Il 22 Marzo scorso ho introdotto la Conferenza del sindonologo, dott. Antonello Ranucci, in qualità di Segretario del Circolo Ragionar Cattolico, che ha organizzato l’evento (si legga l’articolo a pag. 4 per approfondire). Dovendo fare una mera introduzione, non sono sceso, evidentemente, nel merito delle singole questioni tecnico-specifiche che riguardano la Sindone e la sua autenticità, ma ho preso spunto dall’argomento trattato per una riflessione di fede molto più generica, lasciando le specificità dell’argomento al relatore, che colgo l’occasione ancora una volta per ringraziare per esser venuto fin nella nostra Toscana dal Lazio per  tenere questa Conferenza per il Circolo Ragionar Cattolico. La riflessione che ho sviluppato potrebbe essere sintetizzata nel titolo: la materialità del cattolicesimo. Intravedo, infatti, un rischio abbastanza significativo nel panorama cattolico odierno: lo spiritualismo. Orbene, la fede cattolica è senz’altro un qualcosa di spirituale, la fede attiene alla dimensione spirituale – è chiaro – questo accomuna tutte le fedi, ma il Cattolicesimo, anche stavolta, si distingue. Si distingue nel senso di uno spiccato, fra virgolette, materialismo – non mi si fraintenda, eh; non parlo di ideologie. Pur attenendo alla sfera spirituale, dunque, la nostra fede non disdegna l’elemento materiale, né, men che mai, lo criminalizza, in nome di uno spiritualismo astrattista. Questo, è evidente fin da subito, fin dagli albori della nostra fede. L’incarnazione, il Dio fatto uomo, la seconda Persona della Trinità che si fa carne. E’ uno dei misteri base della nostra fede. E’ il mistero di un Dio che non disdegna a tal punto la materia da farsi esso stesso materia, tangibile.  Se vogliamo, anche in questo sta una riprova del fatto che il cattolicesimo è la vera fede! Come può, infatti, un Dio creatore del mondo – e dunque anche della materia – disdegnare a tal punto la materia?! Dico questo perché in altre fedi, questo è. Fin dalle origini della nostra fede cristiana, dunque, è chiara e lampante la predilezione di Dio per la materia. Pensiamo, appunto, al Dio che si fa materia con l’Incarnazione, ma anche a questo Dio che si fa materia, mediante la materia (il grembo di sua madre); a questo nostro Dio fatto uomo che accetta i doni-materia (oro, incenso e mirra) dei Re Magi. Ma non finisce qui! Pensiamo all’episodio, narrato nel Vangelo, di quell’uomo cieco dalla nascita cui Gesù ridona la vista. Come fa questo?! Con un’astratta formula magica?! No! Sputa per terra, fa del fango e lo spalma sugli occhi del cieco, appunto, per poi dirgli di andare a lavarsi nella piscina di Siloe. In questo modo, il cieco recupera la vista. In questo modo! Attraverso la materialità – scandalosa ed oscena per il mondo – di uno sputo usato, assieme alla terra, per fare del fango, poi applicato sugli occhi. Cosa davvero scandalosa ed oscena per un mondo che, ostile al suo Creatore, è anche ostile alla materia da lui tenuta in sì tanta considerazione. Quale scandalo! Terra, sputo, fango! Eppure è così! E l’episodio delle Nozze di Cana?! L’acqua trasformata in vino?! Non ha, Gesù, voluto allietare gli invitati al banchetto nuziale attraverso elevati, astrattissimi, discorsi, ma bensì con del vino. E il padre di cui alla parabola del figliol prodigo?! Non fa forse festa uccidendo il vitello grasso?! E all’incredulo Tommaso non fa forse toccare le sue piaghe?! E agli increduli discepoli di Emmaus non si mostra forse nell’atto materiale del magiare?! Di esempi, se ne potrebbero fare ancora a bizzeffe. Infine, anche dopo la sua morte, ha voluto che la materia continuasse a giocare un ruolo fondamentale nella vita cristiana. I segni sacramentali sono “materia”: l’acqua del Battesimo, il pane ed il vino dell’Eucarestia, l’olio sacro nella Cresima come nel sacramento dell’Ordine e via dicendo. Così come ha voluto che la sua Chiesa fosse materiale, visibile, concreta, tangibile. Fatta di uomini, con tutti i loro difetti, le loro imperfezioni e le loro mancanze di fede, per giunta. Per non parlare dellamaterialità della Liturgia: incensi, paramenti, gesti… (A proposito: occhio dunque al minimalismo liturgico, alla sciatteria, al non dare importanza alla materiale e spirituale al contempo liturgia, perché, stante quanto detto sopra, è assai grave!). Questa è la materialità del cattolicesimo! Tanto odiata dal mondo in quest’ambito – che pure non la disdegna per altri versi – quanto connaturata alla nostra stessa fede.

Da La voce cattolica (Mensile del Circolo Ragionar cattolico) edizione n° 27 di aprile 2013 - riproduzione riservata  (richiedere autorizzazione a segretario@ragionarcattolico.it)


LA CONFERENZA SULLA SINDONE TENUTA DALL’AVV. RANUCCI: UN CAPOLAVORO CHE HA DISTRUTTO, PUNTO PER PUNTO, LE TESI NEGAZIONISTE

di redazione

Organizzata da tempo, alla fine la Conferenza sulla Sindone ha potuto avere luogo. Venerdì 22 marzo scorso, infatti,  l’avvocato Antonello Ranucci, sindonologo, amico, nonché iscritto al Circolo Ragionar Cattolico (cosa che ci onora), ci ha raggiunti da Rieti per tenere una Conferenza sul Sacro Telo. Coadiuvato nella sua esposizione dalla proiezione di diapositive, l’avv. Ranucci ha, punto per punto, distrutto tutte le tesi negazioniste dell’autenticità della Sacra Sindone. La sua è stata una vera e propria lectio magistralis, un’esposizione ricchissima, ampiamente analitica e documentata. Insomma, proprio ciò di cui c’è bisogno in questi tempi di attacco da parte della cultura laicista e (sedicente) razionalista. Il Circolo Ragionar Cattolico, pertanto, ringrazia pubblicamente di cuore l’amico Antonello Ranucci per averci onorato tenendo questa prestigiosa Conferenza, così come ringrazia chi ha effettuato le operazioni di ripresa con la telecamera e chi farà il montaggio del video integrale della Conferenza, che verrà poi postato su Youtube a beneficio di un numero sicuramente molto più più ampio di persone, rispetto a coloro che hanno partecipato fisicamente alla Conferenza. Riteniamo questo strumento (la pubblicazione dei video su Youtube) fondamentale per l’epoca moderna. Ogni cattolico, in questo modo, può studiare comodamente da casa sua, per poi avere, in tal modo, le conoscenze necessarie a controbattere alla già citata cultura laicista e (sedicente) razionalista. Il video integrale della nostra precedente Conferenza ha già raggiunto, in poco tempo, più di 730 visualizzazioni (https://www.youtube.com/watch?v=JkFbqbDAMk8) ed è in continua crescita. Come si vede, anche il web, come tutte le cose, non è buono o cattivo in sé; è buono o cattivo a seconda dell’uso che se ne fa. Pregate per il Circolo Ragionar Cattolico, affinché disponga sempre degli strumenti che possiede a maggior gloria di Dio e e per la diffusione delle verità della fede cattolica.

Da La voce cattolica (Mensile del Circolo Ragionar cattolico) edizione n° 27 di aprile 2013 - riproduzione riservata  (richiedere autorizzazione a segretario@ragionarcattolico.it)


UN APPROFONDIMENTO STORICO SUGLI EVENTI PASQUALI

di Lorenzo Corradi

Siamo in periodo pasquale, momento in cui il pensiero ed il cuore dei cattolici di tutto il mondo sono rivolti alle sofferenze patite da Cristo a partire dalla sera del Giovedì Santo. Ovvio che, il dolore dei dolori, la sofferenza delle sofferenze, sono quelle patite nel giorno di venerdì, con due pratiche ampiamente diffuse nel mondo antico di duemila anni fa: quello della flagellazione alla colonna e quello della crocifissione. Vogliamo soffermarci sugli aspetti storici di entrambe, anche perché pittori e cinema, pur nel quadro di grossi capolavori, non sempre hanno rappresentato l'indicibile dolore provato da Cristo in entrambe le circostanze; una lodevole eccezione l'ha senz'altra fatta Mel Gibson nel suo “La Passione” e ciò è stato anche oggetto di critica da parte dei benpensanti, accusandolo di avere esagerato, quando in realtà è uscito da ogni tipo di edulcorazione. La flagellazione era largamente conosciuta dai Romani i quali la comminavano ai non cittadini, della Repubblica prima e del Principato – Impero poi, ma anche presso gli Spartani e gli Ebrei (regolata dal Deuteronomio che consentiva quaranta colpi meno uno) era in uso. A Roma essa poteva essere o vera e propria pena di morte, o propedeutica all'esecuzione capitale stessa, o essere anche pena a sé. A differenza della fustigazione che veniva eseguita con delle verghe, la flagellazione era ottemperata con fruste composte da strisce di cuoio o nervi di bue alle cui estremità delle schegge di ossa o frammenti di metallo venivano applicati, i quali provocavano sul corpo del condannato, legato precedentemente ad un palo o ad una colonna, lo squarciamento della pelle con abbondante fuoriuscita di sangue fino addirittura a fare intravedere i muscoli del corpo. I romani non avevano un numero preciso di colpi da dare, ma se la pena non doveva essere “usque ad mortem”, cioè fino alla morte, l'unica accortezza era che il condannato non spirasse. Ciò che alcuni notano, ad esempio, nel raffronto con la Sindone è che essa presenta dei colpi di flagello anche sul petto, punto corporale che usualmente veniva risparmiato dai flagellatori se il reo non doveva essere condannato condannato a morte. Ciò coincide col racconto evangelico di San Giovanni Apostolo (19; 1), per cui Cristo venne fatto flagellare da Pilato per dare soddisfazione all'orda urlante che invece chiedeva la morte tramite croce. L'esecuzione portava anche a il cosiddetto shock ipovolemico, vale a dire lo shock causato dalle forti emorragie e/o da perdita di liquidi. Anche la crocifissione ha il suo tetro passato alle spalle e molti ne attribuiscono la paternità ai Persiani, cosa dubbia così come l'ipotesi che i Romani l'abbiano “importata” dai Cartaginesi, ma di certo la misero ben in pratica, come testimoniano i seimila ribelli di Spartaco crocifissi lungo la via Appia nel 71 a.C., tanto per citare uno degli esempi più famosi. Comminata a schiavi, stranieri e sovversivi, ma non ai cittadini romani, la crocifissione era forse la pena di morte più atroce che potesse capitare ad un condannato, vuoi per la sua procedura, vuoi anche per la lunghezza dell'agonia.  L'iconografia ci mostra il Signore portare l'intera croce,  anche se nella realtà è molto più probabile ritenere che sulle spalle caricasse soltanto il patibolo e ciò sia per consuetudine romana, sia perché i pesanti e numerosi colpi inferti dai soldati durante la flagellazione, facevano correre il serio rischio che Egli potesse perire durante il percorso che conduceva al Calvario. Probabile che la via Crucis di Nostro Signore, vedendo coinvolte tre persone, si sia svolta con i condannati “collegati” l'un l'altro da funi o catene alle estremità dei patiboli, alle gambe od al collo. Sempre sul collo o portato da un soldato, stava poi il “titulus”, ossia le generalità del condannato a morte ed il motivo della condanna stessa, che Poi sarebbe stato piazzato o sulla croce, o ai piedi di essa, o pure qui al collo. Una volta arrivati sul luogo dell'esecuzione, il condannato veniva spogliato delle vesti e qui c'è da fare un'osservazione: pare che i Romani crocifiggessero i condannati lasciandoli del tutto nudi, ma che preferirono lasciarsi convincere dai Giudei a lasciare alle vittime un panno per coprire i fianchi in modo da non urtare la loro pudicizia. Da qui partono le diverse tecniche di crocifissione: il reo poteva avere dapprima le braccia legate e poi i polsi fissati da grandi chiodi, anche se pure qui nel caso di Gesù l'iconografia ha sempre privilegiato il palmo delle mani e del resto nello stesso punto appaiono le stimmate di San Pio da Pietralcina. Tuttavia il palmo era considerato troppo molle per porvi i chiodi e comunque non di rado essi non venivano piantati lasciando le corde attorno alle braccia. Una volta fissato il patibolo allo stipite piantato in terra e facendo assumere alla croce la forma di una T, toccava ai piedi venire fissati pure qui con i chiodi, od anche lasciati liberi: nel primo caso li si sovrapponevano con un unico chiodo, oppure venivano inchiodati ai lati dello stipite all'altezza delle caviglie con le gambe che venivano a trovarsi leggermente divaricate. La croce poteva presentare anche una sorta di sedile che permettesse a chi vi stava appeso di riprendere un minimo di forze, ma di fatto allungando la sua agonia. A ciò serviva anche la “miscela” di acqua ed aceto, la posca, che Gesù rifiutò. Dicevamo che l'agonia poteva durare ore o anche giorni , fino al sopraggiungere della morte, di solito per collasso cardio – circolatorio od asfissia, ma la quale poteva essere ad ogni modo accelerata o con un colpo di lancia all'altezza del cuore, o col “crurifragium”, cioè lo spezzamento delle gambe con degli appositi bastoni causante la mancanza di sostegno del condannato e di conseguenza l'iperestensione della cassa toracica portando al decesso per soffocamento. Chi analizza ancora la Sindone, sostiene diverse tesi circa la causa tecnica della morte di Cristo; oltre alle due classiche nominate prima, anche quella di infarto seguito da emopericardio, ossia una ampia raccolta di sangue nel sacco che ricopre il cuore. Tante sofferenze che se narrate nel dettaglio ci fanno capire ancora di più quanto atroce sia stata la morte di Nostro Signore, un dolore immenso per una gioia ancor più grande da lì a poco.

Da La voce cattolica (Mensile del Circolo Ragionar cattolico) edizione n° 27 di aprile 2013 - riproduzione riservata  (richiedere autorizzazione a segretario@ragionarcattolico.it)


IL GIOVEDÍ SANTO E L’EUCARESTIA

di Francesco Bernardini

«T’adoriam Ostia Divina, t’adoriam Ostia d’Amor» era uno dei canti più sentiti nelle nostre chiese ed uno di quelli più cantati dal popolo cristiano al completo, anche dagli stonati come me. Oggi, avendo la Grazia di seguire celebrazioni in Rito antico (Messa tridentina) dove tale canto di lode è ancora godibile, mi chiedo quanto tempo è che non si sentono tali versi nelle nostre chiese. Non è una questione di bellezza musicale, anche se a me piace per la sua immediatezza canora, quanto per il fatto che veniva cantato da tutti ed esprimeva e realizzava l’unità di un popolo davanti al suo Re, così come, potremmo dire, che l’inno di una nazione esprime l’unità politica e culturale di un popolo. Il preambolo è importante per provare a fare sana apologetica di quello che, dicevo nell’articolo precedente, è la ragione per cui si può parlare di Chiesa (ecclesìa: assemblea di un popolo unito) solo perché la Chiesa Cattolica è «Chiesa fondata e nutrita sull’Eucaristia», perché coloro che vi appartengono sono popolo e Corpo Mistico, non per i loro meriti ma perché nutriti con lo stesso Pane e lo stesso Sangue. Il Battesimo ci innesta nella vita della Chiesa, ma l’Eucaristia ci mantiene in contatto con tale vita. Vita della Chiesa che è eterna ed universale perché, per il mistero della Comunione dei Santi, è con la Celebrazione Eucaristica che la Chiesa militante (qui ed ora sulla Terra) è in perfetta sintonia con la Chiesa Purgante (in Purgatorio) e con la Chiesa Trionfante (in Paradiso) e tutte e tre rendono Grazie (Eucaristia) a Dio Onnipotente ed Eterno. E’ con il Sacrificio Perfetto (Eucaristia) che si rende Lode Perfetta a Dio e ancora non per merito nostro ma solo per merito esclusivo del Perfetto ed Eterno Sacerdote Gesù Cristo. La fede cattolica insegna che «l’Eucaristia è il sacramento che, sotto le specie del pane e del vino, contiene realmente Corpo, Sangue, Anima e Divinità del Nostro Signore Gesù Cristo». Per dire che cosa insegna la fede cattolica sull’Eucaristia ho citato letteralmente una bella, sintetica, ma ricchissima e profondissima risposta del Catechismo di san Pio X, che ho avuto la grazia di studiare quando ero bambino. Dunque, insegna la fede cattolica che l’Eucaristia è Gesù stesso, è lo stesso Gesù Cristo che è in Cielo e che nacque da Maria Vergine. Se ci chiediamo perché la Chiesa insegna che l’Eucaristia è Gesù stesso, la risposta è molto semplice: perché lo ha detto Gesù Cristo ed è chiarissimamente riportato nei Vangeli. I tre Vangeli sinottici, Matteo, Marco e Luca, sono di una chiarezza straordinaria. E’ lo stesso dicasi del vangelo di san Giovanni. Capite bene che siamo di fronte ad un immenso mistero. Ma crediamo alla verità di questo Mistero perché è stato Gesù Cristo stesso a svelarcelo. Il grande San Tommaso d’Aquino scriveva: «Che in questo sacramento sia presente il vero Corpo e il vero Sangue di Cristo non si può apprendere con i sensi ma con la sola fede, la quale si appoggia sull’autorità di Dio». Ora, non tutti quelli che si dicono cristiani credono che l’Eucaristia sia il Corpo. Non ci credono i protestanti; non ci credono i Testimoni di Geova che, se vogliamo essere precisi e puntuali, non potremmo nemmeno chiamare cristiani perché non credono alla divinità di Gesù Cristo, e, ovviamente, con ci credono coloro che non sono cristiani. Ma quali argomento abbiamo noi cattolici per sostenere, per giustificare e per difendere la verità cattolica?! Ci chiediamo se i primi cristiani credessero che l’Eucaristia fosse realmente il Corpo e il Sangue del Signore, come crediamo oggi noi Cattolici e i cristiani dell’Oriente, oppure se credessero che l’Eucaristia fosse solo un simbolo, un ricordo una rappresentazione che “significava” Gesù, come pensano oggi i Protestanti e i Testimoni di Geova. Bene, di fronte a questa domanda, la storia parla chiaro: i documenti, le testimonianze, le tracce che la storia ci ha consegnato attestano, senza ombra di dubbio, che i primi cristiani credevano sull’Eucaristia esattamente la stessa verità di fede che professa oggi la Chiesa cattolica. In altre parole: la Chiesa Cattolica insegna sull’Eucaristia esattamente ciò che sempre, da duemila anni, senza interruzione, i cristiani hanno sempre creduto. La Chiesa cattolica ha conservato immutata la dottrina eucaristica, come Cristo l’aveva insegnata. E’ con queste verità nel cuore che dovremmo apprestarci a vivere il tempo pasquale e soprattutto il Giovedì Santo, giorno in cui, non è un caso, si celebra la festa della prima Eucarestia, quella dell’Ultima Cena, e quella della istituzione del sacerdozio cattolico. 

Da La voce cattolica (Mensile del Circolo Ragionar cattolico) edizione n° 27 di aprile 2013 - riproduzione riservata  (richiedere autorizzazione a segretario@ragionarcattolico.it)


VENERDI' SANTO. GIUDA, L’IDEA SBAGLIATA SU GESÚ E IL PROGRESSISMO ODIERNO


di Diego Vanni

I peccati di Giuda? Due: anzitutto un’idea sbagliata che si era fatto su Gesù (ma era cosa rimediabile) e, in secondo luogo, il suo suicidio. Vediamo di approfondirli entrambi e di capire in che modo questa idea sbagliata che l’Apostolo traditore si era fatta su Gesù c’entri con il progressismo dei giorni nostri. E partiamo proprio da qui: dall’idea sbagliata che Giuda si era fatto di Gesù. Com’è noto, infatti, gli Apostoli (e Giuda non fa eccezione) lasciarono tutto, famiglia compresa, per la sequela di Gesù, per seguire il Divin Maestro. Non è una scelta facile abbandonare tutto, soprattutto la propria famiglia. Ma gli Apostoli lo fecero. Per quale ragione? Dicevo poc’anzi «per seguire il Divin Maestro». Ma c’era negli Apostoli la consapevolezza della divinità di Cristo? Ossia: c’è sempre stata? Già solo il fatto che alla domanda di Gesù «La gente chi dice che io sia?» e poi «E voi chi dite che io sia» risponda solo Pietro (e con la risposta teologicamente più corretta che potesse dare, non a caso «né la carne, né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli»), dicendo: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente», la dice lunga, forse, sulla consapevolezza (iniziale) degli Apostoli circa l’identità di Gesù. Ma ammettiamo pure che gli altri abbiano taciuto semplicemente perché Pietro è stato più rapido a rispondere. Sicuramente non c’era in Giuda questo tipo di consapevolezza. Giuda probabilmente considerava Gesù alla stregua di un rivoluzionario che sarebbe dovuto diventare una sorta di leader indipendentista che avrebbe liberato finalmente la Palestina dall’occupazione romana. Va da sé che se si ha una simile idea di Gesù, quando poi quel Gesù ti annuncia che deve morire… beh! Non ci si rimane bene! In un attimo, quando capisci che veramente colui nel quale avevi riposto le speranze andrà a morire e tutto dunque finirà, ti crolla il mondo addosso. Il sogno di una vita p er il quale avevi abbandonato tutto, famiglia compresa, va in frantumi. E sopraggiunge la disperazione, dunque il Demonio, la cui via d’entrata nell’animo umano è quasi sempre la disperazione. Com’è andata a finire lo sappiamo: Giuda va dai sommi sacerdoti, “vende” Gesù per trenta denari, dà indicazioni alle guardie del sinedrio («Quello che bacerò è lui, arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta»), le conduce all’orto del Getsemani dove Gesù era in preghiera, lo bacia e lo fa arrestare. Il processo del sinedrio, il processo di Pilato e via dicendo fino alla croce, alla morte. Dunque: un’idea sbagliata su Gesù! L’idea di Gesù non come Messia e Redentore, non come Verbo incarnato ed unico Salvatore dell’uomo, non come del Cristo, il Figlio del Dio vivente, ma un’idea di Gesù come liberatore politico dal potere romano. Quante volte anche oggi facciamo quest’errore! Quante volte anche oggi, in piena deviazione dottrinale progressista, ci facciamo questa idea così immanentistica di Gesù? Il Gesù filosofo, il Gesù politico, il Gesù del sociale, il Gesù ecologista e chi più ne ha più ne metta (anzi no, cretinate su Gesù ne sono già state dette più che a sufficienza)! Quante volte lo riduciamo a ciò che non è. Ma «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente»! Gesù è il Verbo fatto carne per la salvezza degli uomini, per la salvezza eterna. Smettiamo di tirarlo per la giacchetta di qua o di là, come fanno i politici con il Presidente della Repubblica. Smettiamo di fargli dire ciò che Egli non ha detto, di farlo passare per ciò che Egli non è! Come cattolici abbiamo il dovere di testimoniarlo come Messia, come il Figlio del Dio vivente, come Dio in persona, «generato, non creato, della stessa sostanza del Padre»! E se non lo facciamo, se riduciamo la sua infinitezza divina per piegarlo alle nostre finitezze umane ne risponderemo di fronte al Tribunale di Dio, dopo la morte, al momento del Giudizio finale. E, in conclusione, il secondo aspetto, accennato in apertura di articolo: il suicidio. Che poi, forse, è la diretta conseguenza del primo errore (l’idea sbagliata su Gesù). Giuda si suicida, forse, proprio perché non ha capito chi era Gesù. Lo avesse capito avrebbe agito diversamente perché avrebbe compreso che con Lui è vinta ogni disperazione. Mentre il suicidio è l’espressione più tremenda e drastica della disperazione. A ben vedere infatti la pregnanza teologica devastante del suicidio è proprio questa: il suicidio (peccato di gravità inaudita che espone enormemente al rischio della dannazione eterna), è l’asserzione della (presunta) impotenza di Dio nel dare un senso ed una speranza alla tua vita, nonché il misconoscimento di Dio come Signore e padrone assoluto della vita dell’uomo.

Da La voce cattolica (Mensile del Circolo Ragionar cattolico) edizione n° 27 di aprile 2013 - riproduzione riservata  (richiedere autorizzazione a segretario@ragionarcattolico.it)

VENERDI' SANTO. GESU’ CRISTO NON HA APPARENZA NE’ BELLEZZA, È DISPREZZATO E REIETTO, MA È IL SOLO SALVATORE DEL MONDO, IL CUI CASTIGO CI DÁ SALVEZZA

di Diego Vanni
  
Cari fratelli, non passa Quaresima che la mia attenzione non ricada, con sempre nuova meraviglia, su alcune pagine del libro del profeta Isaia: nella fattispecie sto parlando del capitolo 53, laddove si profetizza con impressionante precisione la Passione di Cristo. Altra prova, se ci pensate, del fatto che la Sacra Scrittura è Parola di Dio: come poteva un uomo (Isaia) nato 700 anni prima di Cristo descrivere con tale precisione gli ultimi momenti della vita di Gesù?!  Impossibile! Ergo: Colui che ha parlato per mezzo dei profeti è proprio lo Spirito Santo, Dio stesso quindi, essendo inconcepibile una tale precisione a cotanta distanza temporale. Fatta questa premessa (utile da ripetersi anche ai miscredenti) vorrei però scendere nel merito e condividere con voi alcune riflessioni che la lettura profetica mi ha portato a fare. Il Profeta inizia così: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. (Is. 53, 2-3). Orbene il mondo moderno (ma forse anche quello dei tempi di Gesù) non ragiona così. Guardiamo la società odierna: è tutto un pubblicizzare cure dimagranti, ritocchi estetici, terapie del benessere, creme, oli e via dicendo, tutto al fine di apparire belli, in forma: ciò che conta è l’apparenza, la bellezza, il fascino! Lui non è così. Il Verbo incarnato, il Figlio di Dio, il Dio fatto uomo non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non ha splendore per poter provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, Egli ha lasciato inchiodare sulla croce il suo corpo squarciato, provato dalla tortura e dal dolore acuto. Non ha quindi fascino, non ha bellezza, nulla in Lui ad uno sguardo approssimativo può suscitare attrazione. Quest’uomo dal corpo dilaniato (che è Dio) si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e non lo abbiamo capito (o vogliamo non capire) e lo abbiamo giudicato castigato, percosso da Dio e umiliato (Is. 53, 4). Ma questo è quello che Isaia chiama il castigo che ci dà salvezza, poiché eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. (Is. 53, 6-7). Ebbene: questo agnello condotto al macello, questa pecora muta di fronte ai suoi tosatori, quest’uomo dei dolori che ben conosce il patire, questo disprezzato e reietto dagli uomini, giudicato come un castigato, percosso da Dio e umiliato, che non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, proprio questo Cristo di Dio si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca. E’ morto in croce perché scandalo pubblico per la mentalità giudaica: bestemmiatore! Oggi quello stesso Verbo incarnato che tanto ha patito anche per la nostra redenzione come è considerato?! La sua passione, la sua morte per noi, il suo amore smisurato sino alla follia della croce che effetto fanno?! In altre parole: la gente chi dice che io sia? (Lc 9, 18). E’ ancora oggi questa la domanda, la cui risposta è fondamentale per l’esistenza! Quante persone oggi, anche fra coloro che si professano cattoliche, risponderebbero come Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!»? Sappiamo riconoscere e far riconoscere agli altri in questo uomo che non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi il Figlio di Dio?! Oppure anche noi ci aspettiamo un Messia glorioso, di bell’aspetto, che piace alla gente e che non faccia la fine ingloriosa della croce?! Eh sì, anche oggi, come allora, in tanti di noi quella santa croce desta scandalo e la mentalità giudaica dell’epoca fatica ancora a morire.

Da La voce cattolica (Mensile del Circolo Ragionar cattolico) edizione n° 27 di aprile 2013 - riproduzione riservata  (richiedere autorizzazione a segretario@ragionarcattolico.it)



DOMENICA DI PASQUA. L’EVENTO PASQUALE, LA CERTEZZA DELLA RISURREZIONE COME EVENTO SUL QUALE LA CHIESA STA O CADE

di Diego Vanni

«Scimus Christum surrexisse a mortuis vere» recita la Sequenza pasquale. Noi sappiamo con certezza che Cristo è risorto dai morti. O… dovremmo saperlo con certezza! Eh sì! Perché la moderna scienza esegetica ne ha perfino per l’evento della Resurrezione, evento – come vedremo – sul quale la Chiesa sta o cade. Prendo le mosse per questo articolo da una mia (vivace) conversazione, avvenuta anni fa, con un sacerdote livornese a cui sono molto affezionato e che, tuttavia, quella volta prese una sonora cantonata. Riporto questo episodio ovviamente senza menzionare il nome del sacerdote, per il rapporto che mi lega e lui e per evitare personalismi che francamente non mi entusiasmano. La discussione avuta con lui, però, sul piano oggettivo merita di essere riportata perché emblematica (delle derive) della “scienza esegetica” moderna. La quale, mettendo in discussione, o addirittura negando la storicità dei Vangeli e della Risurrezione di Cristo, finisce per scardinare tutta l’architettura teologica del cattolicesimo, riducendolo a dottrina che si fonda su di una “storiella”, alla quale si è liberi o meno di credere, nella misura in cui essa non ha basi oggettive e razionali.  

Bendetto XVI docet Consapevole di questa pericolosa esegesi, che distingue il “Cristo della fede” dal “Cristo della storia”, nell’aprile 2009 Papa Benedetto XVI volle far chiarezza una volta per tutte (anzi due): la domenica di Pasqua e poi il mercoledì successivo, nell’ambito dell’udienza generale in piazza San Pietro. Benedetto XVI ha insistito sul fatto che la risurrezione di Gesù «non è una teoria, ma una realtà storica, non è un mito né un sogno, non è una visione né un’utopia, non è una favola, ma un evento unico ed irripetibile». Nella Catechesi del mercoledì dopo Pasqua, Benedetto XVI disse: «È pertanto fondamentale per la nostra fede e per la nostra testimonianza cristiana proclamare la risurrezione di Gesù di Nazareth come evento reale, storico, attestato da molti e autorevoli testimoni. Lo affermiamo con forza perché, anche in questi nostri tempi, non manca chi cerca di negarne la storicità, riducendo il racconto evangelico a un mito, ad una “visione” degli Apostoli, riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche». Benedetto XVI insiste sulla Risurrezione come «dato storico». Scrive il Papa nel Messaggio della domenica di Pasqua: «In effetti, una delle domande che più angustiano l’esistenza dell’uomo è proprio questa: che cosa c’è dopo la morte? A quest’enigma la solennità odierna ci permette di rispondere che la morte non ha l’ultima parola, perché a trionfare alla fine è la Vita. E questa nostra certezza non si fonda su semplici ragionamenti umani, bensì su uno storico dato di fede (ma anche storico, nda): Gesù Cristo, crocifisso e sepolto, è risorto con il suo corpo glorioso. 

Gesù è risorto perché anche noi, credendo in Lui, possiamo avere la vita eterna». Del resto, fa notare giustamente il Pontefice «stiamo parlando del cuore del messaggio evangelico», citando san Paolo, che dice: «Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1Cor 15, 14). E aggiunge, giustamente: «Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (1Cor 15, 19). Un ragionamento che dovrebbe essere assai scontato, ma che purtroppo, nel desolante panorama di confusione dottrinale, non risulta tale. La Risurrezione, pertanto, ribadisce il Papa «non è una teoria, ma una realtà storica rivelata dall’Uomo Gesù Cristo… non è un mito né un sogno, non è una visione né un’utopia, non è una favola,  ma un evento unico ed irripetibile: Gesù di Nazareth, figlio di Maria, che al tramonto del venerdì è stato deposto dalla croce e sepolto, ha lasciato vittorioso la tomba»,ribadendo la prova dell’episodio dei discepoli di Emmaus. Ma il Pontefice non si ferma qui e insiste sulla centralità dell’evento-Risurrezione, spiegando come «è un fatto che se Cristo non fosse risorto, il “vuoto” sarebbe destinato ad avere il sopravvento. Se togliamo Cristo e la sua risurrezione, non c’è scampo per l’uomo e ogni sua speranza rimane un’illusione».

Cosa significa negare la storicità della Risurrezione Sostenere dunque che la Risurrezione non è un fatto storico significa dunque questo: il sopravvento del vuoto e la destituzione di fondamento dell’intera architettura della teologia cattolica. Sostenere ciò significa: da un lato screditare l’intera Sacra Scrittura come fonte storica (la quale mentendo sulla Risurrezione come fatto storico potrebbe benissimo, stanti così le cose, mentire su qualsiasi altro fatto in essa riportato, spacciandolo come “storico”) e dall’altro minare le fondamenta razionali del cattolicesimo, facendo decadere di conseguenza anche tutto l’impianto teologico che su di esse si fonda. Perché è vero che la scienza teologica trascende la ragione, ma è altrettanto vero che essa non può prescindere dalla ragione, pena il ridurre il cattolicesimo a un sistema talmente astratto, indefinito ed indimostrabile da risultare alieno alla vita dell’uomo. Si capisce benissimo, allora, come con un metodo esegetico, come quello che distingue il Cristo storico dal Cristo della fede, si possa distruggere l’intero cattolicesimo. Non ci rimane che pregare affinché il momento attuale passi velocemente e si possa tornare presto all’ortodossia! Possano queste fesserie morire una volta per tutte e, esse sì, non risorgere mai più.                        

Da La voce cattolica (Mensile del Circolo Ragionar cattolico) edizione n° 27 di aprile 2013 - riproduzione riservata  (richiedere autorizzazione a segretario@ragionarcattolico.it)