lunedì 1 aprile 2013

UN APPROFONDIMENTO STORICO SUGLI EVENTI PASQUALI

di Lorenzo Corradi

Siamo in periodo pasquale, momento in cui il pensiero ed il cuore dei cattolici di tutto il mondo sono rivolti alle sofferenze patite da Cristo a partire dalla sera del Giovedì Santo. Ovvio che, il dolore dei dolori, la sofferenza delle sofferenze, sono quelle patite nel giorno di venerdì, con due pratiche ampiamente diffuse nel mondo antico di duemila anni fa: quello della flagellazione alla colonna e quello della crocifissione. Vogliamo soffermarci sugli aspetti storici di entrambe, anche perché pittori e cinema, pur nel quadro di grossi capolavori, non sempre hanno rappresentato l'indicibile dolore provato da Cristo in entrambe le circostanze; una lodevole eccezione l'ha senz'altra fatta Mel Gibson nel suo “La Passione” e ciò è stato anche oggetto di critica da parte dei benpensanti, accusandolo di avere esagerato, quando in realtà è uscito da ogni tipo di edulcorazione. La flagellazione era largamente conosciuta dai Romani i quali la comminavano ai non cittadini, della Repubblica prima e del Principato – Impero poi, ma anche presso gli Spartani e gli Ebrei (regolata dal Deuteronomio che consentiva quaranta colpi meno uno) era in uso. A Roma essa poteva essere o vera e propria pena di morte, o propedeutica all'esecuzione capitale stessa, o essere anche pena a sé. A differenza della fustigazione che veniva eseguita con delle verghe, la flagellazione era ottemperata con fruste composte da strisce di cuoio o nervi di bue alle cui estremità delle schegge di ossa o frammenti di metallo venivano applicati, i quali provocavano sul corpo del condannato, legato precedentemente ad un palo o ad una colonna, lo squarciamento della pelle con abbondante fuoriuscita di sangue fino addirittura a fare intravedere i muscoli del corpo. I romani non avevano un numero preciso di colpi da dare, ma se la pena non doveva essere “usque ad mortem”, cioè fino alla morte, l'unica accortezza era che il condannato non spirasse. Ciò che alcuni notano, ad esempio, nel raffronto con la Sindone è che essa presenta dei colpi di flagello anche sul petto, punto corporale che usualmente veniva risparmiato dai flagellatori se il reo non doveva essere condannato condannato a morte. Ciò coincide col racconto evangelico di San Giovanni Apostolo (19; 1), per cui Cristo venne fatto flagellare da Pilato per dare soddisfazione all'orda urlante che invece chiedeva la morte tramite croce. L'esecuzione portava anche a il cosiddetto shock ipovolemico, vale a dire lo shock causato dalle forti emorragie e/o da perdita di liquidi. Anche la crocifissione ha il suo tetro passato alle spalle e molti ne attribuiscono la paternità ai Persiani, cosa dubbia così come l'ipotesi che i Romani l'abbiano “importata” dai Cartaginesi, ma di certo la misero ben in pratica, come testimoniano i seimila ribelli di Spartaco crocifissi lungo la via Appia nel 71 a.C., tanto per citare uno degli esempi più famosi. Comminata a schiavi, stranieri e sovversivi, ma non ai cittadini romani, la crocifissione era forse la pena di morte più atroce che potesse capitare ad un condannato, vuoi per la sua procedura, vuoi anche per la lunghezza dell'agonia.  L'iconografia ci mostra il Signore portare l'intera croce,  anche se nella realtà è molto più probabile ritenere che sulle spalle caricasse soltanto il patibolo e ciò sia per consuetudine romana, sia perché i pesanti e numerosi colpi inferti dai soldati durante la flagellazione, facevano correre il serio rischio che Egli potesse perire durante il percorso che conduceva al Calvario. Probabile che la via Crucis di Nostro Signore, vedendo coinvolte tre persone, si sia svolta con i condannati “collegati” l'un l'altro da funi o catene alle estremità dei patiboli, alle gambe od al collo. Sempre sul collo o portato da un soldato, stava poi il “titulus”, ossia le generalità del condannato a morte ed il motivo della condanna stessa, che Poi sarebbe stato piazzato o sulla croce, o ai piedi di essa, o pure qui al collo. Una volta arrivati sul luogo dell'esecuzione, il condannato veniva spogliato delle vesti e qui c'è da fare un'osservazione: pare che i Romani crocifiggessero i condannati lasciandoli del tutto nudi, ma che preferirono lasciarsi convincere dai Giudei a lasciare alle vittime un panno per coprire i fianchi in modo da non urtare la loro pudicizia. Da qui partono le diverse tecniche di crocifissione: il reo poteva avere dapprima le braccia legate e poi i polsi fissati da grandi chiodi, anche se pure qui nel caso di Gesù l'iconografia ha sempre privilegiato il palmo delle mani e del resto nello stesso punto appaiono le stimmate di San Pio da Pietralcina. Tuttavia il palmo era considerato troppo molle per porvi i chiodi e comunque non di rado essi non venivano piantati lasciando le corde attorno alle braccia. Una volta fissato il patibolo allo stipite piantato in terra e facendo assumere alla croce la forma di una T, toccava ai piedi venire fissati pure qui con i chiodi, od anche lasciati liberi: nel primo caso li si sovrapponevano con un unico chiodo, oppure venivano inchiodati ai lati dello stipite all'altezza delle caviglie con le gambe che venivano a trovarsi leggermente divaricate. La croce poteva presentare anche una sorta di sedile che permettesse a chi vi stava appeso di riprendere un minimo di forze, ma di fatto allungando la sua agonia. A ciò serviva anche la “miscela” di acqua ed aceto, la posca, che Gesù rifiutò. Dicevamo che l'agonia poteva durare ore o anche giorni , fino al sopraggiungere della morte, di solito per collasso cardio – circolatorio od asfissia, ma la quale poteva essere ad ogni modo accelerata o con un colpo di lancia all'altezza del cuore, o col “crurifragium”, cioè lo spezzamento delle gambe con degli appositi bastoni causante la mancanza di sostegno del condannato e di conseguenza l'iperestensione della cassa toracica portando al decesso per soffocamento. Chi analizza ancora la Sindone, sostiene diverse tesi circa la causa tecnica della morte di Cristo; oltre alle due classiche nominate prima, anche quella di infarto seguito da emopericardio, ossia una ampia raccolta di sangue nel sacco che ricopre il cuore. Tante sofferenze che se narrate nel dettaglio ci fanno capire ancora di più quanto atroce sia stata la morte di Nostro Signore, un dolore immenso per una gioia ancor più grande da lì a poco.

Da La voce cattolica (Mensile del Circolo Ragionar cattolico) edizione n° 27 di aprile 2013 - riproduzione riservata  (richiedere autorizzazione a segretario@ragionarcattolico.it)


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