Siamo
in periodo pasquale, momento in cui il pensiero ed il cuore dei cattolici di
tutto il mondo sono rivolti alle sofferenze patite da Cristo a partire dalla
sera del Giovedì Santo. Ovvio che, il dolore dei dolori, la sofferenza delle
sofferenze, sono quelle patite nel giorno di venerdì, con due pratiche
ampiamente diffuse nel mondo antico di duemila anni fa: quello della
flagellazione alla colonna e quello della crocifissione. Vogliamo soffermarci
sugli aspetti storici di entrambe, anche perché pittori e cinema, pur nel
quadro di grossi capolavori, non sempre hanno rappresentato l'indicibile dolore
provato da Cristo in entrambe le circostanze; una lodevole eccezione l'ha
senz'altra fatta Mel Gibson nel suo “La Passione” e ciò è stato anche oggetto
di critica da parte dei benpensanti, accusandolo di avere esagerato, quando in
realtà è uscito da ogni tipo di edulcorazione. La flagellazione era largamente
conosciuta dai Romani i quali la comminavano ai non cittadini, della Repubblica
prima e del Principato – Impero poi, ma anche presso gli Spartani e gli Ebrei
(regolata dal Deuteronomio che consentiva quaranta colpi meno uno) era in uso.
A Roma essa poteva essere o vera e propria pena di morte, o propedeutica
all'esecuzione capitale stessa, o essere anche pena a sé. A differenza della
fustigazione che veniva eseguita con delle verghe, la flagellazione era
ottemperata con fruste composte da strisce di cuoio o nervi di bue alle cui
estremità delle schegge di ossa o frammenti di metallo venivano applicati, i quali
provocavano sul corpo del condannato, legato precedentemente ad un palo o ad
una colonna, lo squarciamento della pelle con abbondante fuoriuscita di sangue
fino addirittura a fare intravedere i muscoli del corpo. I romani non avevano
un numero preciso di colpi da dare, ma se la pena non doveva essere “usque ad
mortem”, cioè fino alla morte, l'unica accortezza era che il condannato non
spirasse. Ciò che alcuni notano, ad esempio, nel raffronto con la Sindone è che
essa presenta dei colpi di flagello anche sul petto, punto corporale che
usualmente veniva risparmiato dai flagellatori se il reo non doveva essere
condannato condannato a morte. Ciò coincide col racconto evangelico di San
Giovanni Apostolo (19; 1), per cui Cristo venne fatto flagellare da Pilato per
dare soddisfazione all'orda urlante che invece chiedeva la morte tramite croce.
L'esecuzione portava anche a il cosiddetto shock ipovolemico, vale a dire lo
shock causato dalle forti emorragie e/o da perdita di liquidi. Anche la
crocifissione ha il suo tetro passato alle spalle e molti ne attribuiscono la
paternità ai Persiani, cosa dubbia così come l'ipotesi che i Romani l'abbiano
“importata” dai Cartaginesi, ma di certo la misero ben in pratica, come
testimoniano i seimila ribelli di Spartaco crocifissi lungo la via Appia nel 71
a.C., tanto per citare uno degli esempi più famosi. Comminata a schiavi,
stranieri e sovversivi, ma non ai cittadini romani, la crocifissione era forse
la pena di morte più atroce che potesse capitare ad un condannato, vuoi per la
sua procedura, vuoi anche per la lunghezza dell'agonia. L'iconografia ci
mostra il Signore portare l'intera croce, anche se nella realtà è molto
più probabile ritenere che sulle spalle caricasse soltanto il patibolo e ciò
sia per consuetudine romana, sia perché i pesanti e numerosi colpi inferti dai
soldati durante la flagellazione, facevano correre il serio rischio che Egli
potesse perire durante il percorso che conduceva al Calvario. Probabile che la
via Crucis di Nostro Signore, vedendo coinvolte tre persone, si sia svolta con
i condannati “collegati” l'un l'altro da funi o catene alle estremità dei
patiboli, alle gambe od al collo. Sempre sul collo o portato da un soldato,
stava poi il “titulus”, ossia le generalità del condannato a morte ed il motivo
della condanna stessa, che Poi sarebbe stato piazzato o sulla croce, o ai piedi
di essa, o pure qui al collo. Una volta arrivati sul luogo dell'esecuzione, il
condannato veniva spogliato delle vesti e qui c'è da fare un'osservazione: pare
che i Romani crocifiggessero i condannati lasciandoli del tutto nudi, ma che
preferirono lasciarsi convincere dai Giudei a lasciare alle vittime un panno
per coprire i fianchi in modo da non urtare la loro pudicizia. Da qui partono
le diverse tecniche di crocifissione: il reo poteva avere dapprima le braccia
legate e poi i polsi fissati da grandi chiodi, anche se pure qui nel caso di
Gesù l'iconografia ha sempre privilegiato il palmo delle mani e del resto nello
stesso punto appaiono le stimmate di San Pio da Pietralcina. Tuttavia il palmo
era considerato troppo molle per porvi i chiodi e comunque non di rado essi non
venivano piantati lasciando le corde attorno alle braccia. Una volta fissato il
patibolo allo stipite piantato in terra e facendo assumere alla croce la forma
di una T, toccava ai piedi venire fissati pure qui con i chiodi, od anche
lasciati liberi: nel primo caso li si sovrapponevano con un unico chiodo,
oppure venivano inchiodati ai lati dello stipite all'altezza delle caviglie con
le gambe che venivano a trovarsi leggermente divaricate. La croce poteva
presentare anche una sorta di sedile che permettesse a chi vi stava appeso di
riprendere un minimo di forze, ma di fatto allungando la sua agonia. A ciò
serviva anche la “miscela” di acqua ed aceto, la posca, che Gesù rifiutò.
Dicevamo che l'agonia poteva durare ore o anche giorni , fino al sopraggiungere
della morte, di solito per collasso cardio – circolatorio od asfissia, ma la
quale poteva essere ad ogni modo accelerata o con un colpo di lancia all'altezza
del cuore, o col “crurifragium”, cioè lo spezzamento delle gambe con degli
appositi bastoni causante la mancanza di sostegno del condannato e di
conseguenza l'iperestensione della cassa toracica portando al decesso per
soffocamento. Chi analizza ancora la Sindone, sostiene diverse tesi circa la
causa tecnica della morte di Cristo; oltre alle due classiche nominate prima,
anche quella di infarto seguito da emopericardio, ossia una ampia raccolta di
sangue nel sacco che ricopre il cuore. Tante sofferenze che se narrate nel
dettaglio ci fanno capire ancora di più quanto atroce sia stata la morte di
Nostro Signore, un dolore immenso per una gioia ancor più grande da lì a poco.
Da La voce cattolica (Mensile del Circolo Ragionar cattolico) edizione n° 27 di aprile 2013 - riproduzione riservata (richiedere autorizzazione a segretario@ragionarcattolico.it)
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