martedì 24 settembre 2013

«MAMMA HO PERSO TUTTO AL GIOCO; MI SUICIDO». ECCO I SEGNI DI UNA SOCIETÁ (LETTERALMENTE) DISPERATA E SCRISTIANIZZATA. SE SOLO I PRETI PORTASSERO GESÚ PER LE STRADE

 di Diego Vanni

La cronaca nera, che ogni giorno reca nuove notizie orribili, il 4 luglio scorso ci rende conto di un diciottenne di Ischia che si è ucciso lanciandosi dalla Chiesa di Santa Maria del Soccorso – qualche giornale ha ironizzato, in maniera quanto mai inopportuna, sul nome della Chiesa parlando di nome «che sa quasi di beffa» – a Forio e finendo schiantato sugli scogli, dopo un volo di 50 metri. Il perché del suo gesto, il ragazzo lo ha lasciato racchiuso in un biglietto, carico di disperato senso di colpa: «Mamma ho perso tutto al gioco». Il ragazzo, che avrebbe compiuto 19 anni questo mese, aveva perso, appunto, tutti i soldi che aveva su un conto postale giocando a poker on-line e su un sito di scommesse su Internet.

Io trovo che questo episodio sia emblematico di una società che ha letteralmente perso la speranza; la fede in quel Dio la cui carità può passar sopra ogni errore e dare occasione di ripartire da capo. Una sorta di – potremmo dire – seconda redenzione. Dio è più grande di una, pur grave, bravata consistente nell’aver perso tutti i risparmi al gioco. Dio può e vuole mettere una pietra sopra – laddove c’è consapevolezza dell’errore commesso (e in questo caso c’era, evidentemente)  – consente di ripartire da capo, lasciandosi alle spalle i propri errori; dà un’altra opportunità; una seconda chance, basta chiederla. O… quantomeno; basta dar modo alla vita di proseguire, di andare avanti.

Spesso, però, purtroppo, non è così! Spesso la gente è – letteralmente – disperata; manca cioè della virtù della speranza; della speranza in quel Dio che, se lo vogliamo e glielo consentiamo, tutto può fare per cambiare la nostra vita, come si suol dire, da così a così. Si manca di speranza, dunque, ma si manca anche di fede, evidentemente. Di fede nell’onnipotenza di Dio di fronte alla quale anche il più abnorme dei peccati nulla può. E di carità; nei confronti di Dio, di sé stessi, degli altri. Si manca di carità nei confronti di Dio perché si respinge al mittente il dono dei doni (la vita). Si manca di carità nei confronti di sé stessi perché ci si priva da soli di quella che prima ho chiamato la seconda redenzione, della possibilità di ripartire da capo. E si manca di carità anche nei confronti degli altri, non realizzando o non riuscendo a realizzare a pieno la devastante, sconfinata, satanica tristezza che si procura loro – quantomeno… ai nostri cari – tramite il nostro gesto.  Una disperazione, beninteso, non nuova. Quella stessa disperazione che colse anche l’apostolo Giuda quando realizzò che Gesù non era il leader politico venuto a liberare la Palestina dall’occupante romano. Quella disperazione che portò, appunto, anche lui al suicidio, la gravità teologica del quale sta proprio nell’asserzione, di fatto, della (presunta) impotenza di Dio di fronte al peccato commesso; nell’asserzione della (presunta) impotenza di Dio di ridare un senso ed una speranza alla nostra vita.


La fede, la speranza, la carità, dicevo prima. Il senso della vita; l’amore; il perdono di Dio. Chi ne parla più (quantomeno… per le strade)! Dove sono i preti?! La domanda è d’obbligo. Se fossero per le strade a portare a tutti questi disperati l’amore di Dio, a spiegar loro che non c’è peccato che sia più grande o potente di Dio, a dir loro che Dio dà sempre un’ulteriore possibilità di ricominciare da capo, questi episodi non accadrebbero. Ma, spesso, sono troppo in altre faccende (stupide) affaccendati, come si suol dire. Dicono sempre – i preti - «parliamo in positivo; basta condanne». Bene, andate! E fatelo. Uscite dalla canonica e date un senso alla vita della gente. 


Da La voce cattolica (Mensile del Circolo Ragionar cattolico) edizione n° 31 di settembre 2013 - riproduzione riservata  (richiedere autorizzazione a segretario@ragionarcattolico.it)

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