sabato 13 ottobre 2012

IL VERO CONCETTO DI UBBIDIENZA

di redazione

E’ curioso come molti prelati (anche di alto livello), dopo aver fatto di tutto e di più per sconfessare quell’oscurantista Chiesa preconciliare da cui il loro stesso ministero trae legittimazione, invochino l’obbedienza a sé stessi e al loro insegnamento. Se infatti la “catena della legittimazione” si interrompe, ancorché per un solo  anello, va da sé che si pone un problema (di legittimazione, appunto). Per questo, dicevamo,è curioso come molti prelati (anche di alto livello), dopo aver fatto di tutto e di più per sconfessare quell’oscurantista Chiesa preconciliare da cui il loro stesso ministero trae legittimazione, invochino l’obbedienza a sé stessi e al loro insegnamento. Qual è, dunque, il vero concetto cattolico di ubbidienza? Il parroco trae la sua legittimazione dal Vescovo, il quale la trae a sua volta dal Romano Pontefice, il quale, a sua volta, la trae, nell’insegnare, dalla Tradizione. Ne consegue dunque che bisogna obbedire al parroco se questi obbedisce al Vescovo, che a sua volta deve essere in comunione col Santo Padre, che non può comunque dire ciò che gli pare e piace, ma che è vincolato al Magistero dogmatico ed infallibile dei suoi Predecessori sul Soglio petrino. Sulla base di questa catena di legittimazione gerarchica si può chiedere ubbidienza. Ne consegue, dunque, che il parroco che non obbedisca al suo vescovo (se questi è in comunione col Pontefice e se questi si rifà o, almeno, non contraddice il Magistero dogmatico ed infallibile dei suoi Predecessori) non può chiedere ai suoi parrocchiani ubbidienza, proprio perché ha interrotto la catena della sua stessa legittimazione e, dunque, anche della legittimità dell’ubbidienza che egli stesso chiede. Parimenti, un vescovo che non sia in comunione col Santo Padre (purché, giova ripeterlo, questi sia in linea col Magistero dogmatico ed infallibile dei suoi Predecessori) non può chiedere ubbidienza. Proprio perché egli, così facendo, come il parroco di cui prima, ha interrotto la catena della sua stessa legittimazione e, dunque, anche della legittimità dell’ubbidienza che egli stesso chiede. Infine, ed è l’ultimo anello della catena della legittimazione, anche il Santo Padre è vincolato, a sua volta, alla sua stessa fonte di legittimazione, ossia alla fonte di legittimazione del suo stesso ministero. Il Papa, infatti, non è Cristo in terra. E’ il suo vicario, che non è poco, ma non è Cristo in Terra. Egli stesso, dunque, è vincolato al Deposito della Rivelazione e al Magistero dogmatico ed infallibile dei suoi Predecessori. Laddove un suo insegnamento non sia in linea col Deposito della Rivelazione e col Magistero dogmatico ed infallibile dei suoi Predecessori, lo stesso Romano Pontefice non puòchiedere legittimamente ubbidienza. Solo il Padreterno, dunque, si autolegittima. Orbene, questi discorsi, questi ragionamenti, in un’epoca “normale” per la Chiesa, non sarebbero certo da farsi, ma, ahinoi, questi non sono tempi normali per la Chiesa. Fu lo stesso Paolo VI, il Papa del Concilio Vaticano II, a dire che «si credeva che dopo il Concilio sarebbe arrivata una giornata di sole per la Chiesa, quando invece è arrivata una giornata di buio, di tempesta»! Fu lo stesso Paolo VI a parlare del «fumo di Satana che, per qualche fessura, è entrato (perfino, ndr) in Vaticano». Se tempi di «buio e di tempesta», se tempi in cui il «fumo di Satana per qualche fessura, è entrato in Vaticano» sono tempi normali per la Chiesa… Ergo, per quanto difficoltoso e spiacevole, per quanto ciò non sia privo di rischi, è necessario chiarire quale sia il vero concetto di ubbidienza. In un contesto, come scrivevamo prima, in cui molti prelati (anche di alto livello), dopo aver fatto di tutto e di più per sconfessare quell’oscurantista Chiesa preconciliare da cui il loro stesso ministero trae legittimazione, invocano l’obbedienza a sé stessi e al loro insegnamento (ma si scontrano col fatto che si è rotta, di fatto, questa catena della legittimazione), è ovvio che la virtù dell’obbedienza sia in crisi. E se è in crisi, con buona pace di qualcuno, non è per i ragionamenti che stiamo esponendo in questa sede, ma per colpa esclusiva di quei prelati che, con i loro stessi atteggiamenti, rompono questa catena gerarchica della legittimazione. A questa crisi dell’ubbidienza, tuttavia, nel mondo cattolico, si risponde in diverso modo. C’è chi, come noi, fa chiarezza su quale sia il vero concetto di ubbidienza e chi risponde a questa crisi dell’ubbidienza, esasperando la virtù stessa o divinizzando coloro ai quali (a certe condizioni) si deve ubbidienza. Non è tuttavia (questa seconda risposta) un servizio alla Chiesa. Non lo è perché costringe il fedele ad ubbidire ciecamente e tout court a chiunque porti un collarino bianco al collo, il che è assai pericoloso coi tempi che corrono. Non lo è perché non si può prescindere dalla catena della legittimazione che, se rotta, rompe ipso facto anche quella dell’ubbidienza. Non lo è perché l’ubbidienza all’autorità non può prescindere dall’ubbidienza da parte dell’autorità stessa nei confronti di quell’autorità superiore da cui trae legittimazione. Non lo è perché non c’è solo l’aspetto soggettivo (l’esser prete, vescovo o cardinale), ma anche quello oggettivo - ed oggettivamente più importante – del Depositum Fidei, del Magistero dogmatico ed infallibile. Non è dunque (l’esasperazione dell’ubbidienza) la risposta giusta alla crisi dell’ubbidienza. Ogni autorità ecclesiastica che richieda ubbidienza deve mettersi in testa di ubbidire a sua volta al suo superiore, alla fonte della sua stessa legittimazione. Nessuno vuole incitare alla disubbidienza nei confronti del parroco, del vescovo o del Papa, ci mancherebbe. Ma è necessario che il parroco si metta in testa di ubbidire al vescovo. Il vescovo è necessario che si metta in testa di ubbidire al Papa. Il Papa è necessario che agisca sempre e comunque (sia nel comportamento che negli atti magisteriali) nel rispetto del Deposito della Rivelazione e del Magistero infallibile dei suoi predecessori. Questa è la risposta alla crisi dell’ubbidienza. Il parroco che ubbidisca al Vescovo che sia in comunione col Santo Padre che agisca nel rispetto del Deposito della Rivelazione e del Magistero infallibile dei suoi predecessori può benissimo e a giusto titolo chiedere ubbidienza. Il vescovo che sia in comunione col Santo Padre che agisca nel rispetto del Deposito della Rivelazione e del Magistero infallibile può benissimo e a giusto titolo chiedere ubbidienza. Il Santo Padre che agisca nel rispetto del Deposito della Rivelazione e del Magistero infallibile dei suoi predecessori può benissimo e a giusto titolo chiedere ubbidienza. Così si risponde alla crisi della virtù di cui stiamo parlando. Non chiedendo ubbidienza aprioristica e a prescindere. Non divinizzando gli uomini di Chiesa, Santo Padre compreso. A proposito della cui infallibilità occorre fare alcune precisazioni, soprattutto in considerazione degli sproloqui di alcuni movimenti cattolici. Come detto, in risposta (sbagliata) alla crisi dell’ubbidienza e dell’autorità, alcuni movimenti cattolici hanno pensato bene (si fa per modo di dire, evidentemente) di riquotare al rialzo. In questa strategia ci sta anche la divinizzazione del Santo Padre, la cui infallibilità non sarebbe più – secondo questi movimenti – circoscritta all’ambito in cui è ricondotta da quella costituzione dogmatica del Concilio Vaticano I chiamata Pastor Æternus e nemmeno alla sola materia teologica, ma si estenderebbe ad ogni atto promulgato o fatto compiuto da parte del Santo Padre. Come detto, questa è un’esagerazione assurda sia dal punto di vista teorico, che da quello pratico. E’ un’esagerazione assurda dal punto di vista teorico perché come detto – e la cosa è grave – la divinizzazione della figura del Pontefice non è assolutamente compatibile né con quanto voluto da Cristo, né con quanto solennemente e dogmaticamente stabilito dalla Pastor Æternus, che val qui la pena di richiamare nella sua definizione dogmatica. Dice dunque la costituzione dogmatica del Vaticano I: «Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa». Dunque, la condizione affinché un atto sia coperto dall’infallibilità è la volontà del Pontefice di parlare ex cathedra e cioè come Pastore di tutti i cristiani. Va da sé, dunque, che il Romano Pontefice può parlare anche a titolo di dottore privato. Ebbene, quando parla in tale veste egli non è coperto dall’infallibilità. Lo stesso Bendetto XVI lo ha ricordato quando, in occasione della pubblicazione del suo libro su Gesù, ha detto che la si poteva anche pensare diversamente, che lo si poteva anche contraddire perché egli parlava, appunto, come dottore privato. Quindi, non solo i fatti compiuti dal Pontefice non sono coperti dall’infallibilità, ma nemmeno le sue parole sono tutte coperte dall’infallibilità. Ecco perché dicevamo che è grave la posizione di questi movimenti cattolici. Essi, così facendo (e ancorché in buona fede) stiracchiano (per dirla eufemisticamente) una definizione dogmatica, quella or ora riportata della Pastor Æternus. Non vorremmo essere in loro. Lo stiracchiamento, in senso espansivo o riduttivo che sia, del contenuto di una definizione dogmatica è una cosa decisamente grave. Infine, come detto, è un’esagerazione assurda dal punto di vista pratico. Quando – e solo per fare un esempio – Giovanni Paolo II baciò il Corano fece un colossale e grave errore! La cosa è tanto evidente a chi conosca un minimo di catechismo cattolico che non vale la pena di esplicitarne il perché. Vale la pena giustappunto di citare il Salmo che dice: «Gli dèi degli altri popoli sono demoni». A buon intenditor, poche parole. Ora, alla luce di questi fatti (contra factum non valet argumentum) ci devono spiegare come sia possibile che «il Papa non sbaglia mai». E’ evidente che questa gente non ha argomenti e quando si rendono conto che, invece, tu li hai, ti rimuovono dalle amicizie di Facebook. Davvero mal di poco, anzi… di nulla! Anche il Papa, dunque, è vincolato al Deposito della Rivelazione e al Magistero dogmatico ed infallibile dei suoi Predecessori sul Soglio petrino. Quando agisce in coerenza con tutto ciò può richiedere ubbidienza, quando non lo fa no. Perché, piaccia o meno a questi movimenti (più abili certamente a trattare materie diverse da quella teologica), il Papa non è il primo anello di questa catena della legittimazione e dunque anch’egli è vincolato all’anello che sta sopra di lui. Se rompe questa catena della legittimazione rompe anche, ipso facto, quella della legittima ubbidienza.

Da La voce cattolica (Mensile del Circolo Ragionar cattolico) edizione n° 6 di aprile 2011 - riproduzione riservata  (richiedere autorizzazione a segretario@ragionarcattolico.it)



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