venerdì 12 ottobre 2012

LA SALVEZZA DI COLORO CHE SI TROVANO EXTRA ECCLESIAM

di Diego Vanni

Le condizioni per conseguire la salvezza al di fuori della Chiesa sono essenzialmente due: l’ignoranza invincibile della vera fede e la condotta di vita conforme alle norme morali del diritto naturale. Ignoranza invincibile della vera fede. È la condizione di quelle persone che, senza loro colpa, non conoscono per nulla la religione cristiana (il che oggi è piuttosto raro) oppure ne hanno una conoscenza eccessivamente parziale o sostanzialmente deformata. Si tratta di una categoria molto più vasta di quanto possa sembrare a primo impatto. Tra gli individui che hanno una nozione talmente parziale della fede cristiana da configurarsi come ignoranza totale vanno annoverati quei popoli ai quali l’annuncio del Vangelo non è ancora giunto o è giunto in maniera estremamente frammentaria: non si tratta soltanto delle popolazioni selvagge ancora esistenti in alcune zone dell’Africa, dell’Asia, dell’America meridionale e dell’Australia, ma anche dei cittadini di tutti quei paesi islamici dove la propagazione del cristianesimo è punita con la morte o con castighi severissimi. Negli altri Stati a maggioranza non cristiana (come Cina o India, ad esclusione di alcune province) le condizioni socio-culturali non consentono alla persona media di andare oltre una conoscenza molto parziale del cristianesimo, ordinariamente insufficiente a determinare le condizioni per un motivato assenso di fede. In certi casi la tradizione familiare e i legami con la comunità locale costituiscono un ostacolo insormontabile anche al solo interesse verso culti diversi dal proprio. Per quanto riguarda i paesi con una lunga tradizione cristiana alle spalle, la situazione è piuttosto complessa. Si potrebbe pensare, in un primo momento, che per la gran parte dei loro abitanti la possibilità di una ignoranza incolpevole della vera fede non sussista neppure. Questo, forse, poteva essere vero sessant’anni fa. Oggi è fuor di dubbio che la società contemporanea tende a dare, per mezzo dei mezzi di comunicazione, dei testi scolastici, del «pensiero comune», un’idea sostanzialmente deformata del cristianesimo. È quella che io definisco conoscenza «giornalettistica»: il cittadino occidentale medio di oggi ha una nozione della fede che di solito non va oltre il quadro offertogli dalla televisione, dai quotidiani, dalle riviste. L’istruzione religiosa, anche negli stessi ambienti ecclesiastici, è del tutto carente. Parallelamente i «valori» trasmessi dalla società si riducono sostanzialmente al consumismo, alla libertà incondizionata, alla ricerca ossessiva del piacere fisico: in una parola, al materialismo totale. In un quadro del genere, possiamo dire che il cittadino medio abbia sempre, nei paesi di tradizione cristiana, una conoscenza sufficiente della religione? Io sono convinto che non sia possibile rispondere positivamente. E direi anche che in molti casi tale ignoranza è incolpevole, poiché quando un determinato atteggiamento esistenziale (quello materialista) diventa talmente comune da assurgere a modello sociale, i singoli, specialmente quelli più deboli, sono naturalmente portati a seguirlo. Pertanto credo di poter affermare che nell’occidente «cristiano» di oggi i casi di ignoranza invincibile sono tutt’altro che rari. Questo, naturalmente, non significa che tutte le persone che conoscono poco il cristianesimo siano vittime dei condizionamenti sociali e quindi non abbiano colpa, ma che, senza dubbio, molte di loro sono in questa condizione. Condotta di vita conforme alle norme morali del diritto naturale. L’ignoranza della vera fede, infatti, non dispensa l’essere umano dal comportarsi in conformità alla propria coscienza illuminata dalla ragione. Tutti, in altre parole, sono tenuti ad osservare il diritto naturale nella misura in cui lo conoscono, tenuto conto delle capacità del proprio intelletto e delle condizioni storico-sociali del popolo da cui provengono. È del tutto evidente che molte religioni non cristiane (e oggi anche diverse confessioni cristiane non cattoliche) pervertono in qualche punto il diritto naturale: si pensi alla poligamia per gli islamici o alle caste degli induisti. Ma è parimenti evidente che il fedele di quelle religioni che, in buona fede, aderisce a pratiche non conformi al diritto naturale, non è consapevole della propria colpa e quindi, da un punto di vista morale, agisce correttamente. Diverso sarebbe il caso del fedele non cristiano che, avvertendo nella propria coscienza la non conformità alla giustizia di certe usanze (religiose o extrareligiose), continuasse a praticarle per inerzia o per convenienza. Si tratta di un caso tutt’altro che raro. Nel contesto della società materialistica occidentale, la relativizzazione della morale spinge molte persone a non curarsi neppure della propria coscienza, badando unicamente all’utile che si può trarre dalle proprie azioni. È chiaro che una condotta di questo genere è sempre colpevole, indipendentemente dalla posizione religiosa o filosofica della persona. Una vita conforme al diritto naturale e alla coscienza implica naturalmente il pentimento delle colpe eventualmente commesse. La natura e le modalità di questo pentimento sono connesse alla concezione morale che l’individuo in buona fede condivide: si tratterà, in ogni caso, di un atto di sincera contrizione di fronte all’errore commesso, unito alla volontà, per quanto possibile, di riparare al danno. Come si vede, unico giudice tanto dell’ignoranza quanto della vita morale è soltanto Dio e pertanto non è scorretto affermare che le persone al di fuori della Chiesa possono salvarsi per vie a Lui solo note. L’errore sta nel fraintendere questa espressione, come se Dio concedesse indistintamente a chi è dentro e a chi è fuori della Chiesa gli stessi mezzi ordinari di santificazione. Questo significherebbe scadere nell’indifferentismo e proclamare l’equivalenza, dal pun-to di vista della salvezza, del cristianesimo con le altre religioni, rendendo privo di senso l’ordine di Cristo di propagare la sua religione in tutta la terra. L’adempimento alle due condizioni che ho esposto equivale a quello che i teologi definiscono «battesimo di desiderio». Tanquerey (Synopsis Theologiae dogmaticae, Parisiis-Tornaci-Romae, 1959, vol. III, n. 515) sintetizza questa dottrina nella seguente tesi: Contritio aut caritas perfecta, cum voto saltem implicito baptismi, supplet vices baptismi aquae quoad remissionem peccatorum [ = La contrizione o la carità perfetta, unita al desiderio almeno implicito del battesimo, supplisce gli effetti del battesimo d’acqua quanto alla remissione dei peccati]. Il Concilio di Trento, inoltre, ha dichiarato: Post Evangelium promulgatum nunquam fieri translationem a statu veteris Adam ad statum gratiae sine regenerationis lavacro aut eius voto [ = Dopo la promulgazione del Vangelo il passaggio dallo stato del vecchio Adamo allo stato di grazia non è possibile senza il lavacro di rigenerazione o almeno il suo desiderio] (Denz. 796). Ora è evidente che l’ignoranza invincibile della vera fede unita a una vita moralmente integra (contritio aut caritas perfecta) costituiscono di per sé un desiderio almeno implicito di ricevere il battesimo e quindi le persone che si trovano in tali condizioni ottengono la stessa remissione del peccato originale (e dei peccati attuali) che si ottiene mediante il battesimo d’acqua

Da La voce cattolica (Mensile del Circolo Ragionar cattolico) edizione n° 4 di febbraio 2011 - riproduzione riservata  (richiedere autorizzazione a segretario@ragionarcattolico.it)



Nessun commento:

Posta un commento